10 domande a Delphine Pessin, autrice di “Far fiorire le ferite”

Il bisogno di scrivere è nato spontaneamente in Deplhine Pessin durante un progetto scolastico, e da allora non si è più fermata. Per la collana HotSpot del Castoro è in uscita Far fiorire le ferite, uno struggente romanzo YA a due voci ambientato in una casa di riposo. Ecco le nostre 10 domande per conoscere meglio l’autrice e la storia dietro al libro!

Quando hai capito di voler diventare una scrittrice?

Nel momento in cui ho iniziato a scrivere il mio primo romanzo, non era una scelta consapevole. Non l’ho fatto pensando: Sto scrivendo un libro, voglio diventare una scrittrice. Ho iniziato perché stavo vivendo insieme ai miei studenti un’esperienza davvero intensa, che mi ha scosso molto. Si trattava di un progetto teatrale in cui abbiamo messo in scena il tema del bullismo scolastico. Avevo bisogno di esprimermi su questo argomento, ed è così che è nato il personaggio di Emilie, la protagonista di La carotte et le bâton. Per la prima volta ho voluto condividere un mio testo, e l’ho inviato ad alcuni editori. È stato pubblicato, dando inizio alla mia carriera da scrittrice.

Quanto ci è voluto per vedere la tua storia arrivare tra gli scaffali delle librerie?

Per la prima versione, quella che ho proposto al mio editore, ci sono voluti sette mesi. Il processo editoriale è durato due mesi, ma spalmati su un periodo più lungo, direi almeno nove mesi. In tutto è passato un anno e mezzo dall’inizio della scrittura alla pubblicazione.

Sei la prima artista della tua famiglia?

Sì! Nella mia famiglia ci sono grandi lettrici, ma nessuno che scriva. E nemmeno altri tipi di artisti.

I tuoi tre libri, autori o illustratori preferiti di quando eri bambina e di oggi.

Ho uno splendido ricordo d’infanzia legato alla lettura di Il richiamo della foresta di Jack London. Mi piacevano molti i racconti: avevo le grandi raccolte della collana Gründ, che ho letto e riletto: le mie preferite erano le fiabe dei fratelli Grimm e di Andersen.
Oggi i miei autori per bambini e ragazzi sono Timothée de Fombelle e Flore Vesco, per citarne qualcuno. Mi sono perdutamente innamorata del lavoro di Claude Ponti quando ho letto i suoi albi insieme ai miei figli, e adoro lo strano universo di Anthony Browne.

La parte migliore e quella peggiore dell’essere una scrittrice.

La parte migliore è proprio scrivere: è così emozionante, quasi magico. Portare alla luce i personaggi, una storia che prima esisteva solo nella mia testa… Mi piace così tanto che non riesco a trascorrere una giornata senza lavorare su un testo.
La peggiore è quando ci si butta in un progetto o quando un libro riceve delle belle recensioni. È meraviglioso, ma ci si proietta sempre in avanti. A volte è difficile assaporare il momento presente. Si aspetta il feedback dell’editore, o quello dei lettori, e c’è sempre una componente di rischio e incertezza perché non si può mai predire come un testo sarà percepito da qualcun altro.

Come scrittrice, cosa sceglieresti come tua mascotte/avatar/animale guida?

Su Internet il mio avatar è sempre una foto dell’ultimo libro che ho pubblicato. Credo che mi rappresenti bene. Un libro è un piccolo pezzo di sé che ogni volta si consegna agli altri.

Come ti è venuta la prima idea per questo libro e cosa hai imparato scrivendolo?

Più che un’idea singola è stata l’unione di più elementi, come spesso accade, a farmi voler scrivere di questo argomento. Mia nonna si trovava in casa di riposo e mio figlio aveva appena cominciato a studiare Infermieristica. Da un lato vedevo mia nonna appassire, e mi interrogavo sulla vecchiaia; dall’altro, invece, mio figlio mi raccontava della sua quotidianità durante il tirocinio in RSA. Per lui è stata un’esperienza arricchente, ma è stato necessario che comprendesse la nudità dei pazienti, il carico di lavoro… Parallelamente, molti infermieri manifestavano. Ogni giorno passavo davanti a una RSA dove era stato affisso un grande striscione su cui c’era scritto: “Caregiver esausti”. Sono stati tutti questi elementi a sollecitarmi e a far nascere le mie domande.
Com’è la vita quando si perde la propria autonomia e ci si ritrova in casa di riposo? Si può essere felici? Perché si sceglie di diventare infermiere? In che modo gestire le condizioni di lavoro così dure di questo mestiere mantenendone l’umanità? Scrivere questa storia e mettere i personaggi nelle diverse situazioni mi ha permesso di rispondere alle domande che mi ero posta.

Raccontaci tre cose interessanti/un po’ pazze su di te!

  • Ho quattro figli, un cane e un gatto. Casa mia è molto movimentata!
  • Paradossalmente, amo ritagliarmi momenti di tranquillità. Non si dice che sia prezioso ciò che è raro?
  • Leggere è la prima cosa che faccio al mattino – insieme al caffè – e l’ultima alla sera (è un po’ come un peluche, non posso addormentarmi senza!).

Se non potessi essere una scrittrice, quale sarebbe il tuo lavoro ideale?

Mi piacerebbe essere un’attrice di teatro.

Cosa vorresti che i lettori italiani ricordassero della tua storia?

Far fiorire le ferite è prima di tutto la storia di un’amicizia. Ci si può dare tanto a vicenda se ci si immedesima negli altri.

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