Il ragazzo senza ombra è il primo romanzo di Lucia Stipari, per Il Castoro già autrice di Il Manuale delle 50 avventure da vivere prima dei 13 anni – In vacanza! insieme a Pierdomenico Baccalario. In queste 10 domande si racconta a tutto tondo: dal suo rapporto con la scrittura fino alle letture predilette e all’ispirazione che l’ha portata a voler scrivere la storia di Filomena e Damiano.
Quando hai capito di voler diventare una scrittrice?
Scrivendo il primo libro; è capitato per caso, grazie all’incontro con Pierdomenico Baccalario, che credo abbia visto in me qualcosa che io non vedevo. Da piccola non scrivevo nemmeno i compiti sul diario di scuola, per dire; non ho mai avuto il sacro fuoco della scrittura. Ma provando ho scoperto che mi piace, mi sfida e mi emoziona. Sono una persona spesso mutevole e incostante, però scrivere è una cosa, forse l’unica, che ho voglia di continuare a fare. Per cui, chi lo sa, magari non è vero che è capitato per caso, da qualche parte era il mio destino. Sempre se mi riesce!
Quanto tempo ci ha messo la tua storia ad arrivare sugli scaffali?
Se parliamo di tempi editoriali, tanto: un paio d’anni da quando ho consegnato il testo all’editore. Se invece parliamo di quanto ci ha messo a trovare un editore, poco. Il primo libro che ho scritto non è rimasto a lungo nel cassetto. Però l’ho scritto e l’ho riscritto diverse volte, anche sotto la spinta di Loredana Baldinucci, l’editor che l’ha letto e che mi ha detto: così non te lo pubblicherei, ma se hai voglia di lavorarci ancora un po’… Mi ha raccontato che cosa mancava, secondo lei. E aveva ragione.
Sei la prima artista della tua famiglia?
Mio fratello di mestiere fa il fotografo, e mio papà è sempre stato appassionato sia di libri e scrittura, sia di fotografia, e ha praticato entrambe. Mio nonno materno di mestiere era militare ma faceva anche il pittore, con un discreto riscontro, e mio nonno paterno lavorava il ferro. Anche mia madre disegna molto bene. Le nonne invece erano artiste in cucina. I loro capolavori: il dolce al caffè (nonna materna) e il coniglio coi capperi (nonna paterna).
I tre libri preferiti della tua infanzia e di oggi.
Questa è una domanda a cui non riesco a rispondere, non saprei essere così netta. Da piccola piccola mi piaceva molto Le avventure di Zigo Zago di Richard Scarry. Ricordo che amavo anche un altro divertente libretto intitolato Il verme, questo sconosciuto, di Janet e Allan Ahlberg; si vede che a quell’età i vermi smuovevano qualcosa in me, come nella terra, chi lo sa. Alle elementari invece leggevo I pirati della Malesia di Salgari e Pinin Carpi (mentre non ho nessunissima memoria di Rodari). E poi L’isola del tesoro di Stevenson, che secondo Borges è una delle forme della felicità, e io sono pienamente d’accordo. Quanti ne ho detti? Più di tre, ma manca uno dei miei preferiti in assoluto, che è Il giovane Holden di Salinger. Ah, ne manca anche un altro! Si intitola Miguilim, di João Guimarães Rosa, un autore brasiliano. Mio papà me lo regalò quando avevo dieci anni, anche se non è un libro per bambini, ed è scritto in un modo un po’ difficile per quell’età. E il bello è proprio questo, che non importa. Quel che non ho capito alla prima lettura l’ho recuperato dopo, rileggendolo da grande, ma di certo ho capito subito quanto fosse splendido e struggente. E poi Pinocchio, altro libro eccezionale che uno non smetterebbe mai di rileggere, da piccolo o da grande. Ce ne sono molti altri, incontrati da adulta, ma non ha senso dirli tutti e non riesco a sceglierne solo tre! In questo istante potrei rispondere Katherine Mansfield, Josif Brodskij e Il Signore degli anelli di Tolkien, ma tra un attimo probabilmente sarebbero altri tre.
Qual è la parte migliore e quella peggiore del mestiere di scrivere?
La parte migliore è che scrivere porta con sé ogni volta una scoperta, anzi molte scoperte, anche riguardo a se stessi. La parte peggiore, per me, è che è faticoso; ci sono autori che scrivono con una grande facilità e rapidità, io invece ci metto secoli, mi arrovello, mi autocensuro, mi giudico cattivissimamente, mi correggo e mi ricorreggo in continuazione. Ma forse anche questo cambierà, e sarà una delle scoperte che porta con sé la scrittura.
Come scrittrice, quale mascotte/avatar/spirito animale sceglieresti?
Una civetta: saggia, notturna, cacciatrice, ma anche leggera e vanitosa.
Dove hai trovato l’ispirazione per questo libro? Ti ha insegnato qualcosa?
L’ispirazione è arrivata dalla curiosità per la parola controra, termine italiano intraducibile che indica un’ora del giorno magica e pericolosa, attorno alla quale ruotano storie, canzoni, leggende, miti, fin dai tempi antichi. Quello che ho capito riguardo all’ispirazione è che può nascere in tanti modi, anche molto estemporanei, ma poi va curata, lavorata, approfondita, altrimenti te la perdi e non significa nulla. E infatti scrivendo l’ho nutrita, leggendo e discutendo. Scrivere (e pubblicare, con tutto quel che ne consegue) mi ha anche insegnato che a volte è bello – necessario e importante – correre qualche rischio, provare, lasciarsi andare senza dar troppo retta alla paura.
Raccontaci tre cose folli/interessanti su di te!
Posso raccontarvi tre cose imperfette, perché sono le imperfezioni a rendere interessante la vita, e accettarle aiuta a essere felici:
- se sono agitata mi sudano le mani;
- mi rosicchio le unghie dei piedi;
- quando sono nata avevo un orecchio piegato e me l’hanno raddrizzato attaccandoci un cerotto (ma è comunque rimasto un po’ a sventola).
Se non fossi diventata un’autrice, quale sarebbe il tuo lavoro ideale?
Il mio lavoro ideale implica l’assenza di gerarchie e strutture opprimenti, e prevede incontri stimolanti. Quindi in effetti fare la scrittrice è abbastanza il mio lavoro ideale. Ma anche gestire un chiringuito su una spiaggia del Portogallo, per esempio.
Cosa vorresti che i lettori si ricordassero della tua storia?
Che la vita è movimento ed è l’amore a far cambiare le cose in meglio.